Testo bollettino È ben noto, in ambito postale e filatelico, il vincolo che impone alle autorità emittenti di raffigurare sulle proprie carte-valori postali unicamente personalità strettamente legate all’identità storica e culturale del Paese emittente. Un vincolo che è anzitutto di natura giuridica, poiché a prevederlo è la stessa Convenzione Postale Universale, ossia l’accordo internazionale multilaterale sottoscritto dai plenipotenziari dei Paesi membri dell’Unione Postale Universale per regolare i reciproci rapporti postali. L’attuale formulazione del documento, che recepisce le modifiche e le integrazioni apportate a seguito del Congresso Postale Universale di Istanbul del 2016, nonché del Congresso straordinario del 2018 e di quello del 2019, conferma all’articolo 6 i preesistenti requisiti ai quali i Paesi membri dell’UPU devono attenersi nella realizzazione dei propri francobolli e delle altre carte-valori postali emesse come manifestazione di sovranità nazionale. Con specifico riferimento ai soggetti raffigurati sui francobolli, la Convenzione prevede espressamente che essi debbano “essere strettamente legati all’identità culturale del Paese membro” e, quando sono dedicati a personaggi illustri non nativi del Paese, tali personaggi debbano comunque avere una stretta connessione con il Paese medesimo. Tale prescrizione - sebbene non sia sempre applicata, soprattutto da quei Paesi, non necessariamente emergenti, la cui politica di emissione delle carte-valori postali appare asservita al perseguimento di meri interessi economici, di fatto depauperando i francobolli della loro primaria funzione postale - è stata sinora sempre applicata dallo Stato italiano, che anzi ha introdotto prassi ancora più stringenti, quale ad esempio quella che vede escluse dalla celebrazione postale le personalità viventi (fatti salvi i regnanti stranieri, che tuttavia salvo rarissime eccezioni trovano pratica concretizzazione nella sola figura del Sommo Pontefice). Si potrebbe, a questo punto, ritenere che la scelta del Ministero dello Sviluppo Economico di inserire nel programma di emissione del 2021 un francobollo dedicato a Napoleone Bonaparte, nel bicentenario della scomparsa, trovi la propria legittimazione proprio nella norma richiamata, in quanto trattasi di personalità dal valore universale la cui storia personale e pubblica si è tanto intrecciata con la storia italiana. Ciò è certamente vero, dal momento che Napoleone ha letteralmente stravolto la vita e le sorti della Penisola - basti solo pensare alle Campagne d’Italia ed all’incoronazione a re d’Italia nel 1805, senza contare le innumerevoli ripercussioni che tali eventi hanno avuto sulla vita sociale, giuridica e culturale italiana, i cui strascichi sono tutt’oggi indelebili nella nostra società nazionale - tuttavia non è sufficiente per inquadrare correttamente l’emissione del francobollo, che invero intende omaggiare Bonaparte non solo come figura storica di rilievo strettamente legata all’identità italiana, bensì come vero e proprio italiano. Sebbene sia azzardato parlare per Napoleone di nazionalità italiana, per il semplice motivo che il concetto di nazionalità come noi lo conosciamo trovò sviluppo solo nei decenni a venire (peraltro prendendo le mosse proprio dagli eventi che seguirono la Rivoluzione francese e la politica espansionistica napoleonica, anzi per la precisione in contrapposizione ad essa), è indubbio che Bonaparte fosse, per nascita e cultura, italiano. Egli difatti nacque ad Ajaccio nel 1769, ossia nell’anno in cui si consumò il definitivo passaggio della Corsica alla Francia, dopo secoli di dominio genovese e la brevissima parentesi della repubblica autonoma di Pasquale Paoli. All’epoca tutto, sull’isola, era italiano, ad iniziare dalla lingua, che dunque Napoleone imparò come idioma madre. I suoi stessi genitori erano di origini continentali italiane, avendo il padre radici toscane, come peraltro buona parte dei corsi di allora, e la madre origini toscane e lombarde. L’intera cultura corsa, che lasciò un imprinting formidabile sul piccolo Napoleone, si basava dunque su quella italiana, e non certo su quella transalpina, che venne importata nell’isola solo dopo la conquista francese del 1769. Cultura, quella francese, che Napoleone certamente acquisì e fece propria nei suoi lunghi anni di studio in Francia, ma che non gli impedì mai di rinnegare le proprie origini corse, soprattutto negli anni giovanili, prima della rapida ascesa al potere nella Parigi post-rivoluzionaria. È noto come il giovane Bonaparte, ammesso nelle più esclusive scuole di Francia grazie alla nobiltà del padre, venisse spesso deriso dai suoi compagni, esponenti delle maggiori famiglie aristocratiche continentali, per i suoi natali isolani e per l’inconfondibile accento italiano che, pare, lo accompagnò per tutta la vita. Derisioni che tuttavia non riuscirono mai a fiaccare Napoleone, il quale anzi accrebbe il proprio attaccamento alla cultura ed ai costumi della sua isola, che certamente erano cultura e usi italiani. Ed è proprio nell’equazione che lega in maniera inscindibile la cultura corsa dell’epoca a quella italiana che si ritrova la italianità di Napoleone Bonaparte. Egli, dunque, se non per diritto di cittadinanza (concetto astratto non applicabile al contesto dell’epoca in cui Napoleone vide la luce) è stato certamente italiano per nascita e cultura. E per questo ci piace pensare che il francobollo emesso dallo Stato italiano nel bicentenario della scomparsa di Napoleone renda omaggio non solo al protagonista indiscusso della storia europea a cavallo tra XVIII e XIX secolo, ma anche e soprattutto ad un grande italiano. Prof. Angelo di Stasi Presidente della Commissione per lo studio e l’elaborazione delle carte-valori postali
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